I ricercatori ambientali ce lo stanno dicendo in tutti i modi: il cambiamento climatico colpirà più gravemente i poveri del mondo. Oltre che evidente, questa realtà è anche piuttosto ingiusta: coloro che hanno avuto un minore ruolo in termini di emissioni di gas serra, saranno i più colpiti dagli effetti destabilizzanti del cambiamento climatico (inaridimento dei terreni, aumento del livello dei mari, diminuzione della biodiversità…).

Ciò che però spesso queste analisi non considerano è l’aspetto di genere della questione: le donne costituiscono infatti gran parte della popolazione impoverita del mondo. Questo significa, in generale, che le donne saranno quelle maggiormente colpite dai cambiamenti climatici nei prossimi decenni.
La maggior parte di esse lavora la terra e fornisce cibo e acqua alla propria famiglia. A causa dei cambiamenti climatici, l’approvvigionamento alle risorse naturali diventa spesso difficile e mette a rischio la sicurezza alimentare più delle donne che degli uomini che sono invece in grado di lavorare, e mangiare, fuori casa.
È inoltre interessante notare come le donne siano più vulnerabili alle calamità naturali. Un esempio su tutti è stato lo Tsunami del 2004, evento durante il quale il 77% delle persone che hanno perso la vita erano donne. E questo per una semplice ragione: le donne non sapevano nuotare.
Infine, alcuni studi hanno dimostrato che le catastrofi e la scarsità di risorse naturali aumentano il rischio di violenze e abusi sessuali fra le mura domestiche a causa dell’aumentata difficoltà per la donna di svolgere le proprie competenze domestiche.
A fronte di tutto ciò, alcune donne stanno iniziando a reagire riconoscendo la loro vulnerabilità in tali processi e prendono coscienza del potere delle loro azioni (spesso sfidando le norme di genere restrittive dei loro paesi).
Ad esempio in Messico, dove il cambiamento climatico ha reso difficile l’agricoltura in molte zone del paese, le donne hanno unito le loro conoscenze sulle erbe selvatiche commestibili (che possono essere raccolte indipendentemente dal diritto alla terra) sfamando così la propria famiglia. La profonda conoscenza agricola permette loro di capire anche quali siano le piante in grado di resistere alle condizioni climatiche sempre più avverse. In Tanzania invece, dove le donne subiscono gli effetti della diminuzione della legna per il fuoco (causata dalla deforestazione) la reazione si è sviluppata su due fronti: l’utilizzo di nuove cucine in grado di utilizzare meno legna e la coltivazione, tutta al femminile, di piantagioni di alberi. Se queste misure di adattamento su piccola scala sono incoraggianti, lo stesso non si può dire a livello globale, dove la donna non viene ancora considerata parte integrante delle aree di ricerca e sviluppo per il contrasto/adattamento al cambiamento climatico. Tuttavia, siamo fiduciosi.
Laurent Fabius, Presidente della Conferenza della Nazioni Unite sul Clima che si svolgerà a Parigi, sembra aver riconosciuto l’importanza dell’integrazione di considerazioni di genere nelle politiche volte al contenimento del cambiamento climatico, affermando semplicemente che «Lottare contro il cambiamento climatico significa anche lottare per i diritti delle donne».