Chi conosce la scienza sente che un pezzo di musica e un albero hanno qualcosa in comune, che l’uno e l’altro sono creati da leggi egualmente logiche e semplici. Anton Cechov
Un consiglio di lettura estiva per chi, come me, ormai da tempo è immerso e perso in ogni tipo di lettura che riguarda boschi e foreste: l’omonimo libro, scritto dal giornalista e scrittore fiorentino Paolo Ciampi, che contiene il racconto della vita di George Perkins Marsh (1801-1882), ecologista ante litteram.
Ciampi mette nel cassetto un plico di fotocopie di un libro ricevuto da un collega: una poderosa biografia a firma di David Lowenthal, George Perkins Marsh: Prophet of Conservation. Dopo avere dimenticato quelle pagine (ci viene confessato che i discorsi sull’ambiente annoiano…), la curiosità rinasce e arriva la scoperta. E con essa la sorpresa.
Perkins è il primo ambasciatore in Italia degli Stati Uniti, nominato da Abramo Lincoln, un uomo che prima ancora che fosse stata inventata la parola ecologia (Ökologie è stata coniata nel 1866 dallo scienziato tedesco Ernst Haeckel), capisce cosa sta succedendo al mondo. Nato a Woodstock nel Vermont, è il primo a parlare di cambiamenti climatici, di foreste da salvare, attraverso i viaggi nelle foreste del New England ma anche e soprattutto fra le fronde maestose degli abitanti il nostro Appennino e le nostre Alpi. Un grido lontano e inascoltato. Le pagine che portano alla scoperta di questo ambasciatore delle foreste sono piene d riflessioni e illuminazioni sul senso degli alberi, sulle montagne e sulla nostra stessa civiltà. Un senso di gratitudine per i boschi pervade il pensiero di George, così ci piace chiamarlo insieme all’autore del testo. Vivendo fra Torino, Firenze e Roma, George gode della luce fiorentina e di quella che filtra fra gli alberi delle Alpi, che considera persone e non cose, sempre cedendo alla tentazione di una passeggiata. “Le Alpi per me sembrano avere un “respiro vitale” più di ogni parte nel resto del mondo” scriveva, possibilità di pace e di cura.
George è una voce solitaria in mezzo all’industrializzazione galoppante, tempi che corrono troppo veloci, dove non c’è più passato o futuro e resta la prepotenza del presente. Le parole però, a volte, e fortunatamente, creano fatti, soprattutto se sono in accordo con i tempi e mature per essi.
Nel 1864, anno in cui pubblica il suo Man and Nature or Physical geography as modified by human action, Lincoln concede alla California la Yosemite Valley, vincolandola a uso pubblico, per villeggiatura e svago. La valle non è ancora un parco ma l’idea che godere della natura può essere una strada per proteggerla germoglia. Nel 1872 ecco allora che il presidente Ulysses Grant istituisce il parco nazionale di Yellowstone, il primo in tutto il pianeta e che molti indicano come frutto delle idee di George. Henri David Thoreau è morto nel 1862 e non ha fatto in tempo quindi a leggere Man and Nature, un libro che serve ad attirare l’attenzione di osservatori preparati, ma il grande John Muir sì. Un uomo che si firmava John Muir, pianeta terra, universo, capace di dire: “sono uscito per fare una passeggiata e ho finito per star fuori fino al tramonto del sole, perché andare fuori, mi sono accoro, in realtà significava andare dentro”. John riesce a pescare da quanto ha dentro, e in qualche modo si riferisce anche a George. Le parole di George creano fatti, parole che uniscono uomini nel mondo. Allora come ora. Che fanno rete, si direbbe oggi.
George conosce anche le foreste di Vallombrosa, dove i vicini camaldolesi di San Romualdo, ordine benedettino, obbediscono a una regola che contiene precise raccomandazioni per salvaguardare gli alberi: il primo Codice forestale. Preghiera e lavoro, mistero e santità degli alberi: tu sarai abete per altezza di contemplazione. Gli alberi sono scale per collegare la terra al cielo, valga tanto per i monaci quanto per gli sciamani di aree lontane del mondo.
La natura senza uomo non è perfetta, la natura con l’uomo spesso si fa disastro, scrive Ciampi, e regolarmente il vero pericolo non è il nomade, il barbaro con le sue tende fuori delle città, ma il sedentario, il civilizzato. Nulla di più vero e attuale.
Una cultura non è migliore dei suoi boschi, dichiara il poeta inglese Wystan Hugh Auden, la si può valutare dai boschi, aggiunge Ciampi, non meno che dalle scuole, dagli ospedali, dalle prigioni. Inseguire la vita di George ha insegnato che la vita di ciascuno di noi è come un fiume di montagna che scende a valle, dove le vicende sono i sassi sott’acqua che le leviga e modella. Gli ostacoli che i giapponesi riconoscono nei loro specchi d’acqua dei giardini, con le carpe coraggiose che li evitano. Abbiamo appreso a misurarci con il silenzio. Con la quiete.
Con l’autore ci si vorrebbe solo abbandonare all’acqua di questo fiume, essere noi stessi acqua che scende a valle, prima che la corsa finisca, prima che l’acqua si mescoli ad altra acqua.
Paolo Ciampi, L’ambasciatore delle foreste, Arkadia-Senza Rotta, 2018, 158 p.
Immagine in evidenza, Vallombrosa, Roberto Lotti; immagine centrale, boschi della Val Pusteria, Simonetta Sandri