Non solo burger vegetali e bistecche di soia. Fra i prodotti messi sul mercato per accontentare chi non vuole mangiare carne si sta facendo largo anche la carne sintetica. Ma come è fatta? È indicata per chi segue una dieta vegana? E davvero potrà fornire proteine animali a chi non se le può permettere, risolvendo la fame nel mondo e tutelando l’ambiente eliminando una volta per tutte l’impatto degli allevamenti?
Al contrario dei prodotti di carne finta di origine vegetale, la carne sintetica è carne vera e propria, coltivata però in provetta in laboratorio: cellule staminali di bovino vengono fatte crescere in uno speciale gel di coltura, così che in pochi mesi si ottengano migliaia di fibre di muscolo di manzo in vitro, che verranno poi compattate per formare un hamburger. Sembrerebbe dunque una soluzione per produrre carne senza allevamenti e senza sacrificare animali, ma le cose non sono così semplici come si potrebbe pensare.
Impatto ambientale della carne sintetica e emissioni
La produzione in laboratorio di carne sintetica potrebbe avere, a lungo andare, anche un impatto ambientale più alto di quello degli allevamenti: è quanto emerge da uno studio britannico della Oxford Martin School, pubblicato su Frontiers in Sustainable Food Systems, che ha messo a confronto in modo rigoroso le emissioni ed il diverso comportamento in atmosfera dei gas serra associati alla produzione di carne, cioè metano, anidride carbonica e protossido di azoto.
Gli studiosi hanno confrontato, cosa mai fatta in precedenza, i potenziali impatti a lungo termine sul clima della carne tradizionale e di quella coltivata in laboratorio. Analizzando i diversi comportamenti dei gas clima alteranti in atmosfera, hanno rilevato differenze sostanziali a parità di tonnellate emesse. Rivalutando sulla base delle attuali conoscenze scientifiche gli attuali fattori di conversione dei singoli gas in tonnellate di anidride carbonica equivalente, sono emerse infatti alcune nuove acquisizioni: in particolare si è rilevato che il metano, che rappresenta l’emissione più significativa proveniente dalle fermentazioni dei bovini, pur avendo un effetto serra molto più elevato dell’anidride carbonica, permane in atmosfera per un tempo estremamente più breve, soltanto per 12 anni circa, al contrario della CO2 che persiste e si accumula per secoli in atmosfera.
Se consideriamo quindi che le emissioni provenienti dai sistemi di allevamento dei bovini sono costituite soprattutto da metano e protossido di azoto che derivano dalle fermentazioni ruminali collegate al processo digestivo degli animali e stoccaggio degli effluenti di allevamento, mentre le emissioni dovute alla carne in coltura sono costituite quasi interamente da CO2, possiamo comprendere meglio perché la produzione di carne sintetica potrebbe risultare più impattante per il clima.
Gli attuali metodi di calcolo delle emissioni basati sulla conversione in anidride carbonica equivalente hanno ancora diversi limiti, in quanto non considerano l’andamento nel tempo dei diversi gas in atmosfera. In particolare non riescono ad esprimere la natura cumulativa delle emissioni di CO2, sovrastimando l’impatto del metano. Inoltre, a causa della breve durata di vita del metano, l’effetto riscaldamento da esso causato ha una persistenza minore, a differenza dell’anidride carbonica che è più duratura nel tempo e si accumula in atmosfera senza decomporsi.
“Carne sintetica”
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Il settore zootecnico in Italia contribuisce solo per il 4,4% al totale dei gas serra (report Ispra 2017) e i dati FAO mostrano che il 65-70% di tutta la CO2 prodotta deriva dai combustibili fossili necessari alla produzione di energia, dall’industria, dai trasporti e dal riscaldamento/raffrescamento domestico, contro il 10,3% della CO2 prodotta dall’agricoltura, zootecnia inclusa.
Consapevoli della necessità di ridurre sempre più gli impatti della produzione di carne sia sul clima che sull’ambiente, ci chiediamo quindi: siamo sicuri che salveremo il mondo dalla fame e dal degrado con una costosa polpetta sintetica? Non è tempo di considerare gli animali d’allevamento, purché gestiti con metodi sostenibili, una parte della soluzione e non sempre del problema? Il dibattito è più che mai aperto.
Questione di palato? Non solo
Innanzitutto, chi l’ha assaggiata si è subito reso conto che, pur essendo carne vera, il sapore non è uguale a quella derivante dagli animali: la mancanza totale di grasso e degli altri componenti della struttura muscolo scheletrica, come l’osso, il collagene, le cellule linfatiche, il tessuto vascolare solo per fare qualche esempio, rende la carne artificiale praticamente insapore; il muscolo sintetico necessita dunque di essere aromatizzato con altri ingredienti che non hanno nulla a che fare con la carne, come sale, uovo in polvere, zafferano e pane grattugiato, oltre a presentare una netta differenza nella “tessitura” delle fibre muscolari, che altera la tipica percezione alla masticazione di una buona classica bistecca.
Ma non è solo una questione di palato: le cellule staminali per poter crescere bene e in sicurezza vengono coltivate in un brodo che, per essere sterile, deve contenere antibiotici ed altri inibitori della crescita di batteri ed altri microorganismi. Un trattamento chimico che viene effettuato sistematicamente in assenza di una normativa sanitaria specifica, contrariamente all’allevamento tradizionale il cui uso di queste sostanze è severamente regolamentato e controllato. L’assenza di chiare norme di sicurezza alimentare sull’utilizzo di queste sostanze pone seri dubbi sul rischio che questi alimenti hi-tech rappresentano per il problema dell’antibiotico-resistenza, contro il quale l’intero settore zootecnico sta svolgendo da tempo azioni di contrasto, riduzione nell’impiego e promozione di un uso corretto e responsabile degli antibiotici in allevamento.