Aumentando il consumo delle alternative vegetali alla carne, sul fronte ambientale ci sarebbe una riduzione solo dello 0,34% delle emissioni di gas a effetto serra.
Ripiegare sui sostituti vegetali della carne alleggerisce di parecchio il portafoglio e riduce di poco il proprio impatto ambientale. Anche se i costi della finta carne si abbassassero e si iniziasse a consumarne di più, infatti, questo avrebbe un impatto trascurabile sulla diminuzione delle emissioni di gas a effetto serra. A dirlo è un recente studio, “Impact of plant-based meat alternatives on cattle inventories and greenhouse gas emissions”, pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Research Letters. Se da un lato il marketing alimentare ha fiutato il business redditizio delle nuove alternative vegetali alla carne, dall’altro mettere nel carrello queste referenze per aiutare l’ambiente non trova riscontri scientifici.
Lo studio
Per quantificare l’impatto dei cambiamenti nella domanda dei consumatori delle “carni vegetali” o delle variazioni dei prezzi sull’economia del bestiame e sulle emissioni di gas serra, gli studiosi hanno elaborato un modello economico che collega la produzione di bestiame negli Stati Uniti al consumo di carne bovina nello stesso Paese.
Scendendo nel particolare, i ricercatori si sono focalizzati sulla sostituzione della carne macinata – la più gettonata per via degli hamburger – con le proteine vegetali.
Per ogni riduzione del prezzo del 10% o aumento della domanda della finta carne, è stato stimato che la produzione di bestiame negli Stati Uniti diminuirebbe di circa lo 0,15% e che il benessere economico dei produttori di bestiame diminuirebbe di 300 milioni di dollari l’anno.
L’aumento ipotetico della domanda statunitense delle carni vegetali altererebbe i modelli commerciali, portando a una riduzione delle importazioni di carne bovina e a un aumento delle esportazioni: un fenomeno che ridurrebbe le emissioni globali di gas serra e l’uso del suolo. Di quanto? Per una riduzione del 10% del prezzo delle alternative vegetali alla carne, ci sarebbe sì un aumento della loro domanda, ma determinerebbe un calo solo dell’1,2% nella produzione di carne macinata, ossia un calo di uno 0,15% nella produzione di bestiame negli Usa. Sul fronte ambientale ci sarebbe una riduzione dello 0,34% delle emissioni di gas a effetto serra causate dalla carne bovina, che salirebbero all’1,14% sommando le emissioni risparmiate dalla riduzione del cambiamento nell’uso del suolo negli Stati Uniti.
La carne vegetale non salverà il mondo
Il messaggio che i sostituti vegetali della carne – ormai molto numerosi e generalmente più costosi rispetto alla carne tradizionale – ridurranno sensibilmente le emissioni di gas serra non corrisponde al vero. Lo studio “Impact of plant-based meat alternatives on cattle inventories and greenhouse gas emissions” ha stimato che, se anche i costi delle finte carni diminuissero e gli americani iniziassero a consumarne di più, questo avrebbe un impatto trascurabile sugli allevamenti intensivi di carne bovina e sulle emissioni di gas serra.
È bene riflettere sulle conclusioni dei ricercatori dello report: “Per comprendere i benefici climatici del cambiamento alimentare, non è sufficiente guardare ai cambiamenti in ciò che le persone mangiano. Dobbiamo anche esaminare come questi cambiamenti influenzino la produzione effettiva di diversi tipi di alimenti”. Sì a una produzione meno impattante, no alla demonizzazione della carne.
Dati distorti sulle emissioni degli allevamenti intensivi
Per rendere il mondo più green non bisogna demonizzare tout court la zootecnia.
Gli allevamenti e le filiere zootecniche impattano sull’ambiente soprattutto per l’emissione di gas a effetto serra e per il consumo di acqua. Il loro contributo alle emissioni – pari al 5,2% del totale nazionale e in costante discesa – è legato alla CO2 del ciclo produttivo, al metano emesso dalle fermentazioni digestive dei ruminanti e dal protossido di azoto, derivante sia dalla gestione delle lettiere e dei liquami, sia dai concimi azotai utilizzati per le coltivazioni di foraggi e mangimi.
L’impatto che ha più peso è quello del metano enterico, ma è un problema temporaneo considerando che la sua durata media nell’atmosfera è di circa un decennio. Inoltre, la CO2 in cui viene convertito è come quella espirata dall’uomo e dagli animali. Ad ogni modo il trend per le emissioni di metano è in miglioramento: dal 1970 al 2018 gli allevamenti italiani hanno ridotto del 40% le emissioni di metano (fonte Ispra).
Altro aspetto rilevante è l’origine biogena del carbonio del metano emesso dalle fermentazioni ruminali (il 50% delle emissioni della zootecnia): deriva da quello fissato dalle piante con la fotosintesi e ingerito dagli animali con foraggi e concentrati e rimane in atmosfera circa undici anni e mezzo, per poi essere riassorbito dalle piante in un ciclo biologico.
Quanto alle emissioni azotate legate agli allevamenti, secondo l’Ispra la riduzione delle emissioni di ammoniaca degli allevamenti dal 1990 al 2018 è stata del 23,4%, quindi le filiere zootecniche stanno investendo per ridurle.
Il finto spreco idrico
Le produzioni zootecniche sono le principali consumatrici di acqua? La risposta è negativa. Da qualche anno vengono attribuiti 1000 litri di acqua per produrre un litro di latte e i 15mila per un kg di carne bovina. In realtà il 90% di quest’acqua deriva dalle piogge. Considerando le acque di riciclo e l’acqua piovana raccolta, i dati della vera impronta idrica sono di 100-300 litri per il latte e di 500-1000 litri per la carne, cioè al pari della produzione degli altri prodotti agricoli.