Una delle critiche più comuni rivolte al settore zootecnico riguarda l’uso di risorse idriche. Ma è vero che per produrre carne, salumi, latte e formaggi si usa troppa acqua? Ed è vero che gli allevamenti, soprattutto quelli in stalla, causano un eccessivo inquinamento idrico? Vediamo come stanno le cose in Italia.

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Per quanto riguarda i consumi di acqua, come abbiamo spiegato lo scorso anno in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, l’87% di quella utilizzata per la produzione di carne è costituito da “green water”, ossia acqua che si rinnova come quella piovana. Circa l’80-90% dell’acqua utilizzata è piovana, mentre solo il 10-20%, la cosiddetta “blue water”, deriva da pozzi, canali irrigui e, in piccola parte, da acquedotti. C’è poi la “grey water”, ossia l’acqua effettivamente “sporcata”, cioè quella che serve a diluire gli scarti dei vari processi produttivi.

Le deiezioni animali sono molto ricche di azoto e un loro spandimento incontrollato sui suoli potrebbe in effetti generare dei problemi ambientali alle falde (e quindi alla preziosa “acqua blu”). La direttiva nitrati pone però un limite molto chiaro a questo problema, definendo delle soglie massime di inquinante che il terreno può ricevere, a seconda che ci si trovi o meno in presenza di aree vulnerabili.

 

Gli impianti di digestione anaerobica di biomasse
Per ovviare a questo problema, i liquami reflui zootecnici e gli scarti di macellazione vengono sempre più spesso utilizzati per la produzione di biogas. Questo avviene grazie a impianti di digestione anaerobica di biomasse che sono in grado di trattare, oltre ai fanghi prodotti dagli impianti di depurazione, i reflui zootecnici e gli scarti di macellazione come ad esempio fanghi di depurazione, rumine e sangue.

Il biogas prodotto viene normalmente impiegato nelle stesse aziende attraverso impianti di cogenerazione per la produzione combinata di energia elettrica e termica con due vantaggi: da un lato la produzione di energia senza l’utilizzo di combustibili fossili, dall’altro la riduzione delle acque di scarico e degli scarti da trattare. Il risultato della digestione anaerobica (il digestato) è anche un prodotto idoneo all’utilizzo in agricoltura biologica come fertilizzante organico, che in quanto tale riduce ulteriormente l’uso della chimica.

L’energia termica viene interamente utilizzata per gli stessi digestori (che nelle varianti più efficienti lavorano a una temperatura costante di 40°) e per la produzione di acqua calda nello stabilimento da cui provengono i fanghi. Non solo, essi sono utilizzati anche in una macchina disidratatrice, che in questo modo tratta il digestato solido a costo termico nullo e rende il prodotto finale idoneo all’utilizzo in agricoltura. In termini ambientali, questo tipo di progetti vale generalmente alcune migliaia di tonnellate equivalenti di petrolio e di CO2 rilasciata in atmosfera evitate ogni anno.

È importante precisare che le aziende zootecniche sfruttano questa tecnologia al solo fine di recuperare i propri scarti di lavorazione ed aumentare l’efficienza energetica dei propri stabilimenti. Non vengono quindi utilizzate altre tipologie di biomasse, come ad esempio le farine di cereali, in conflitto con la produzione di alimenti per consumo umano o di mangimi per animali. L’uso a fini energetici di matrici alimentari potrebbe infatti determinare difficoltà di approvvigionamento nelle filiere principali e distorsioni di mercato.

Tornando all’inquinamento idrico, insomma, si può dedurre che le stalle italiane impattano meno di quanto si pensi. Soprattutto se si considera che oggi l’Italia è il terzo principale produttore mondiale di biogas, dopo Germania e Cina. Un bene per l’economia italiana, ma anche e soprattutto per l’atmosfera e per le sempre più preziose risorse idriche superficiali e sotterranee.