I gas ad effetto serra non sono tutti uguali, e non permangono per lo stesso tempo in atmosfera. Se si vuole combattere davvero il cambiamento climatico, è tempo di tenerlo presente, e di utilizzare nuove e più opportune metriche per il calcolo del riscaldamento globale.
L’aumento della concentrazione dei gas a effetto serra (GHG) dovuto all’attività antropica è da decenni sotto la lente di ingrandimento, a causa del suo legame con il riscaldamento globale. Vale la pena ricordare comunque che l’effetto serra è un fenomeno naturale essenziale alla vita sulla Terra. Senza lo stesso, infatti, la temperatura del nostro pianeta sarebbe di circa –15°C, inadatta ad ogni forma vivente. I vari gas ad effetto serra contribuiscono in maniera diversa al riscaldamento del pianeta e hanno tempi di permanenza in atmosfera anche molto diversi fra loro.
Sotto accusa è sempre il metano emesso dalle vacche in allevamento, che contribuisce al riscaldamento circa 28 volte in più rispetto alla CO2. Quello però che non viene mai considerato è che, grazie a processi naturali come il ciclo biogenico del carbonio attraverso la fotosintesi, la sua concentrazione in atmosfera si riduce molto più rapidamente rispetto alla CO2: il metano resta in atmosfera per una decina di anni, l’anidride carbonica per circa mille.
Nuovi metriche di calcolo dell’impatto
Attualmente, per confrontare l’effetto sul riscaldamento globale dei diversi GHG, viene utilizzato il metodo GWP, cioè il Global Warming Potential, una metrica introdotta dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) che misura il potenziale di riscaldamento globale. Scopo del suo utilizzo: consentire la pianificazione di strategie di mitigazione. In particolare, il GWP misura quanta energia assorbe 1 tonnellata o 1 kg di un dato gas a effetto serra in un determinato periodo di tempo, in riferimento ad una stessa quantità di CO2. Viene dunque espresso in termini di CO2 equivalente (CO2eq) e si fa spesso riferimento ad un arco temporale di 100 anni (GPW100).
Seguendo questo approccio, 1 kg di metano ha un potere di riscaldamento globale pari a quello che avrebbero 28kg di CO2 in un arco di tempo di 100 anni. Ma questa metrica, nonostante sia ormai largamente utilizzata, presenta diverse criticità, limitazioni e incertezze.
Ad esempio, non considera la differenza tra i gas a breve permanenza in atmosfera come il metano, da quelli a lunga permanenza come la CO2. Infatti la CO2 è anche definita come un gas che si accumula, mentre il metano viene considerato un gas di flusso. Una differenza che deve essere tenuta in considerazione, quando si riflette sulle dinamiche che influiscono sul riscaldamento globale.
Ad esempio, l’impatto sul riscaldamento globale delle emissioni di metano calcolato utilizzando il GWP100 sovrastima l’effetto delle filiere delle produzioni animali. Alla luce dei fatti, sono così state proposte nuove metriche, che tengano conto dei diversi comportamenti dei gas, al fine di ottenere valori più realistici.
Tra i nuovi approcci, emerge il GWP*, proposto da un gruppo di ricerca di Oxford, che rappresenta un nuovo modo di impiegare il classico GWP, che confronta sempre i gas a effetto serra con la CO2, ma tiene conto della differenza tra i gas climalteranti a vita breve come il metano e quelli a vita lunga come la CO2.
Nuova metrica GWP*
La nuova metrica GWP* è stata applicata alle emissioni di metano, enteriche e da reflui, di tutte le filiere zootecniche italiane e il risultato è stato confrontato con il GWP100, per una valutazione, annuale e cumulativa dal 2010 al 2020, dell’impatto di questo gas sui cambiamenti climatici. Sulla base dei dati ufficiali pubblicati dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) dal 1990 al 2020, quasi tutte le specie hanno evidenziato minori impatti se calcolati con la nuova metrica rispetto a quelli stimati da ISPRA, con il maggior ridimensionamento per i bovini da carne (-53.786 Mt di CO2we calcolate con il GWP* rispetto a +66.437 Mt di CO2 e stimate con il metodo GWP100).
In pratica, il contributo cumulativo totale della produzione zootecnica italiana al riscaldamento globale negli anni 2010-2020 è stato fortemente negativo (-48.759 Mt di CO2we) rispetto ai dati calcolati con il metodo GWP100 (+206.091 Mt di CO2e).
Questo è un risultato eccezionale, perché rivela per la prima volta che la zootecnia può essere in grado di raffreddare l’atmosfera anziché riscaldarla.
L’applicazione della metrica GWP* alle emissioni di metano di tutte le filiere zootecniche italiane ha permesso di valutare con più accuratezza il ruolo dell’allevamento italiano sul cambiamento climatico rivelando che, con una corretta gestione del metano, l’allevamento non è un problema, ma può essere parte della soluzione alla crisi climatica. Nell’arco temporale 2010-2020, le filiere zootecniche nazionali hanno addirittura negativizzato l’impatto sul riscaldamento legato alle loro emissioni di metano, con i ruminanti che hanno contribuito maggiormente a questo effetto positivo.
Le politiche di mitigazione orientate a una riduzione delle emissioni di metano, dovrebbero tener conto di questi risultati. È sempre più condivisa l’esigenza di distinguere meglio il ruolo dei diversi gas a effetto serra nel riscaldamento globale, al fine di definire le reali responsabilità dei diversi settori e mettere a punto strategie di mitigazione più efficaci, orientando gli sforzi verso i settori davvero più impattanti sul clima.