Quando si parla di impatto ambientale, gli allevamenti e la produzione di carne sono spesso presi di mira perché ritenuti fra i maggiori responsabili delle emissioni di gas serra (GHG) come anidride carbonica (CO2), protossido di azoto e soprattutto metano.
Eppure le produzioni zootecniche possono contribuire alla mitigazione delle emissioni di gas climalteranti in molti modi. Fra questi ci sono anche le azioni sulla produzione e il consumo dei mangimi.
Quello che mangiano gli animali da allevamento, in effetti, non è importante solamente per la loro salute e per la qualità dei loro prodotti, ma anche per mitigare le cosiddette “emissioni dirette” di GHG. Per farlo, produttori di mangimi e allevatori collaborano già da anni per formulare mangimi per animali allevati in stalla contenenti ingredienti in grado di ridurre ad esempio il metano, gas circa 21 volte più a effetto serra della CO2.
Particolarmente efficaci sono gli oli vegetali, soprattutto se polinsaturi, il cui effetto mitigante è stimato in una diminuzione delle emissioni dirette di metano del 5-8% per ogni punto percentuale di olio vegetale introdotto nella dieta degli animali. Il motivo di questo loro effetto sta nella ridotta digeribilità della fibra a cui essi vengono aggiunti, dovuta da una parte all’assorbimento di idrogeno durante la bioidrogenazione (reazioni chimiche di batteri responsabili della fermentazione all’interno del rumine) degli acidi grassi polinsaturi, dall’altra all’inibizione di alcuni ceppi di microrganismi ruminali, come i protozoi.
Fra gli ingredienti per mangimi animali maggiormente in grado di ridurre le emissioni dirette di metano dei ruminanti spiccano poi i tannini, con qualche differenza legata al loro tipo. Quelli condensati, infatti, rendono la fibra meno digeribile e quindi la digestione degli animali meno efficiente. I tannini idrolizzabili, invece, sono più indicati allo scopo di ridurre i metanogeni, sui quali agiscono senza ridurre la digeribilità della fibra. Un aspetto positivo è che i tannini possono essere aggiunti direttamente come ingrediente dei mangimi, ma anche trovarsi nei sottoprodotti dell’industria alimentare, come la frutta e i vegetali non utilizzabili per la vendita, i sottoprodotti della macinazione dei cereali, la pasta e i prodotti da forno non conformi, i residui dell’industria del latte, della birra, del pomodoro, ecc.
Il vantaggio ambientale nell’utilizzo di questi materiali è duplice: si riduce la dipendenza dall’estero delle materie prime per mangimi, si risparmia superficie agricola per la coltivazione dei mangimi a vantaggio della produzione per l’alimentazione umana e si riduce lo smaltimento dei rifiuti. L’utilizzo di residui di cibo per il bestiame è infatti un efficiente sistema di trasformazione di un “rifiuto” per l’uomo in alimenti per allevamenti. Ne beneficiano l’ambiente, il clima e anche l’economia.
Dai sottoprodotti agroalimentari derivano anche molti lipidi, a loro volta utilizzati nei mangimi animali sia per ridurre la produzione di metano che per migliorare la qualità della carne o del latte dei bovini. In particolare, sono utili a questo proposito i semi e l’olio di lino, che come avviene nell’alimentazione umana forniscono omega-3 e omega-6 che, insieme all’acido linoleico coniugato, si possono poi ritrovare nel grasso di carne e latte.
Un altro modo per la mangimistica di ridurre i gas climalteranti è quello di puntare ulteriormente sull’efficienza. In tal senso sono molto utili le tecniche di precision feeding, non solo nella trasformazione degli animali (e quindi nella riduzione di emissioni di CO2 equivalente per quantità di prodotto), ma anche nella riduzione delle emissioni di metano e di escrezioni azotate, e quindi di ammoniaca. L’industria mangimistica può produrre e promuovere l’uso di strumenti di razionamento sempre più precisi e quindi efficienti, che in quanto tali possono aumentare le produzioni animali riducendone l’impatto sull’atmosfera.
I mangimi per gli allevamenti sottraggono davvero cibo all’essere umano?
Resta la questione della competizione tra la mangimistica e l’alimentazione umana, che secondo alcuni sarebbe all’origine di grandi disparità sociali nel sud del mondo, oltre che di processi di deforestazione. Ma prima di tutto è necessario chiedersi una cosa: i mangimi per gli allevamenti sottraggono davvero cibo all’essere umano?
Dipende, perché se si pensa al bovino, la cellulosa di cui questo si nutre non potrebbe mai essere un alimento per l’uomo.
I mangimi per animali da allevamento sono generalmente composti da miscele che, oltre a vitamine e oligoelementi, includono cereali come mais, grano, orzo, e legumi come la soia. Nonostante si pensi che tutto il mangime provenga dal Sud o Nord America, in Italia esistono molti allevamenti che autoproducono gli alimenti zootecnici e che fanno parte di filiere integrate.
E la soia? L’Italia non può essere autosufficiente e deve per forza rivolgersi ad altri Paesi produttori. I dati Assalzoo per il 2016 dicono che il 70% di farina di estrazione di soia (FES) è importata dall’Argentina, il 17% dal Paraguay e solo il 7% dal Brasile e l’1% dagli Usa. In questi casi, però, la normativa europea prevede tutto un sistema di regole sia sulla sua sicurezza sanitaria che sul suo impatto ambientale. C’è anche da dire che, sempre allo scopo di ridurre la dipendenza da produzioni vegetali di altri continenti e quindi le emissioni di gas climalteranti, l’Unione europea sta facendo il possibile per promuovere appunto l’utilizzo di scarti e sottoprodotti delle filiere agroalimentari per le produzioni zootecniche secondo i principi dell’economia circolare.